Uccellino del Paradiso

di Joyce Carol Oates – 
Quante Americhe ci sono?
Forse tante, forse nessuna o solo una, e se ce ne dovesse essere una sola, non sarebbe certo quella di Time Square o quella di Tiffany, sarebbe l’America narrata dalla Oates. Quella che unisce idealmente il Capote di “A sangue freddo” al McCharty di “Non è un paese per vecchi”.
Un paese che si specchia nella sua provincia fatta di roulotte, d’immondizia, di discriminazione razziale, di alcol, droga e degrado, materiale e morale, e soprattutto di violenza, sempre banale o troppo sofisticata, che lega chi vive ai margini a chi vive negli ordinati villini inseguendo non il sogno della famiglia perfetta, ma quello della perfetta famiglia americana.
Zoe Kruller, carismatica dispensatrice di coni gelato di giorno e di bollenti aspettative erotiche di notte, sogna in grande, troppo in grande. Così il suo sogno finirà per diventare incubo per chi le sta accanto e per chi le è stato accanto, per quelli che hanno amato e per quelli che hanno odiato questa Bocca di Rosa dei monti Adirondack, perché nel paese del Grande Sogno, i sogni non possono tramontare, possono solo deflagrare.
Un’esplosione che risparmierà solo gli uccellini, la delicata Krista e il ribelle Aaron, ma avranno ali tarpate, incapaci di accettare l’amore e ansiosi di saltellare verso un quotidiano la cui monotonia sia in grado d’esorcizzare sogni e incubi.
Le tematiche della Oates possono affascinare come sconcertare, e lo stesso dicasi per la sua scrittura anticonvenzionale, i suoi continui salti temporali e ribaltamenti di prospettiva.
Ma Joyce Carol non è scrittrice da quadretti, ma da affreschi potenti, e un affresco è fatto di particolari e di giochi di luce, in cui lo spettatore, che qui è lettore, si deve perdere per ritrovare una straordinaria visione d’insieme.

Riccardo Gavioso