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Per chi suona la cloche

di Angus Wilson

Il libro del quale vorrei lasciare qualche mia impressione è “Per chi suona la cloche” di Angus Wilson, il quale, come dice la presentazione di questo libro, nella quarta di copertina, è stato uno «scrittore dall’infallibile orecchio per i toni sociali». Io, purtroppo – e lo dico a ragione –, non lo conoscevo prima d’ora. Egli mi ha incantato; la sua scrittura è così soave, così elegante, così coinvolgente, oltre al fatto di avere – la sua scrittura – quello che sembra essere il classico “profumo” della letteratura inglese, così raffinata ma priva di eccessivi barocchismi, così bucolica tanto da immaginarti paesaggi verdeggianti e curati, attraversati da un leggero venticello che ne accarezza le linee, ma non per questo meno adatta a cogliere la vita della città e delle sue umane genti, che ti affascina, ti strega, ti rapisce, e la lettura – ahimè – scorre via troppo velocemente, tanto che vorresti durasse di più. Angus Wilson è entrato a pieno titolo nel mio personalissimo pantheon di scrittori preferiti.
Ma veniamo al libro. In “Per chi suona la cloche” tutto prende le mosse dalla morte di Maisie, un’americana di buona famiglia che sprizzava vitalità da tutti i pori e che era rimasta vedova, a suo tempo, di Roger, un inglese benestante, dal quale aveva avuto due figli: Bridget e Derek, chiamato da tutti “Tata”. Il funerale di Maisie è l’occasione per coloro che l’hanno conosciuta di ricordarla, di rammentare chi era Maisie per loro. E a farlo troveremo diverse persone. Innanzitutto, la Zia Alice. Una donna davvero bacchettona, convenzionale, che non accettava il modo in cui, piuttosto spensieratamente, Maisie conduceva la propria vita.
E, sì, perché Maisie viveva in modo leggiadro, facendo quello che voleva, così la si vedeva assecondare le sue due più grandi passioni: gli uomini, che collezionava a bizzeffe, non importa se giovani o vecchi, e i vestiti, che pure collezionava a iosa, non sempre vedendosi riconosciuto, tuttavia, l’occhio per la moda che lei, forse, riteneva di avere.
La Zia Alice, forse un po’ eccessivamente, condanna tutto di Maisie, tra un po’ anche quella che era la sua “americanicità”.
È la volta del marito di Zia Alice, Harold, a ricordarla, il quale non può che essere d’accordo con l’adorata e perfetta moglie. Il ricordo “migliore” (!) che ha di Maisie inerisce a una questione personale e finanziaria che ella voleva risolvere:

«voleva liquidare con una pensione uno dei suoi amanti, e poiché costui era molto più giovane, lei si sentiva la coscienza sporca e voleva avere la certezza che la pensione fosse vincolata in modo tale da assicurare a lui la futura tranquillità economica e da permettere a lei di soffocare i propri scrupoli nella convinzione di aver provveduto al suo avvenire.»

Insomma, per Harold Maisie non era altro che una degna rappresentante di quella biasimevole minoranza di «gente con troppi soldi, pochissimo discernimento e nessuna tradizione.»   
Poi toccherà a Bridget (la figlia di Maisie) ricordarla. Ella ce l’ha con la madre per un torto subìto, che evidentemente non ha perdonato a Maisie. È assolutamente in linea con il pensiero della cara e adorata Zia Alice e, a differenza di Alice, troppo aristocratica per permetterselo, giungerà a rivolgere parole per niente felici alla madre.
Il ricordo di Derek, dalla madre chiamato “Tata”, sarà invece all’insegna della compassione per la vita della sua defunta madre, ma non la biasimerà, anzi, forse più di molti altri sarà in grado di descrivere la vera Maisie, o almeno una buona parte di lei.
A seguire ci saranno altri ricordi: di Sybil, un’amica di famiglia, di Toby Buller, il suo ultimo uomo, e infine sarà la stessa Maisie a dire la sua sulla sua vita attraverso brevi stralci dal suo diario.
Quello che Angus Wilson realizza con quest’opera è un vero e proprio “album degli Anni Venti”, come recita il sottotitolo, perché è in quegli anni che tutti i ricordi possono essere datati, e anche perché è a quegli anni che – possiamo dire – Maisie appartiene veramente. Per quanto tutti la critichino, non possono che essere d’accordo su un punto: Maisie nella sua vita si è divertita; ella ha rispettato in pieno, con cieca obbedienza, l’imperativo di quei “ruggenti e favolosi Anni Venti”: divertirsi; essere ruggenti; essere favolosi.
Ma la vita di Maisie nelle mani di Angus Wilson assume anche un altro significato. Angus Wilson sembra suggerirci, attraverso la vita di Maisie, ricordata sia da lei (col suo diario) che da chi meglio la conosceva, di vivere sulla base di chi siamo realmente e non sulla base di ciò che gli altri vorrebbero che fossimo. E da ciò sembra derivare la vera felicità, sembra dirci ancora Angus Wilson. Nel ricordarla Tata scrive:

«[…] anche se è più appagata, la sua [di Bridget] non potrà mai essere la schietta felicità di Maisie [(aveva obbligato i figli a non chiamarla mamma bensì Maisie)], potrà essere soltanto l’appagamento che si riceve quando si ha tutto sotto controllo grazie a un complicato sistema di compensazioni morali. Maisie non ha mai voluto avere tutto sotto controllo, voleva soltanto fare quello che le andava.»

Per chi suona la cloche”, insomma, come viene riportato nella quarta di copertina, «è la felice parodia non soltanto di un’epoca e di un costume, ma di un fenomeno che si sarebbe manifestato solo in questi ultimi anni: la trasformazione dei «favolosi Anni Venti» in una faccenda eminentemente di antiquariato turistico.»
E, a tal riguardo, i disegni di Philippe Jullian, che accompagnano il testo, ci regalano delle piccole cartoline preziose dal gusto vintage e démodé di tutti i protagonisti che raccontano (e nel farlo ricordano) Maisie, Maisie compresa.
Alla fine del libro mi sono accorto che mi sarebbe piaciuto molto conoscerla, questa Maisie. Infatti, dietro le descrizioni infelici e poco lusinghiere che molti ne hanno dato si può scorgere la vera Maisie, quella che in realtà aveva una terza passione, che a differenza delle due succitate risultava essere incompresa, dietro tutta quella spensieratezza, quella noncuranza delle convenzioni, quella eccessiva “americanicità”: dare, dare agli altri, «[è] la cosa che mi è sempre piaciuta di più dopo gli uomini e i vestiti
Così, in questo gesto generoso del “dare”, si racchiudeva il suo tentativo, forse goffo e sgraziato, per certi aspetti, di far approdare tutti coloro con i quali era in contatto alla sua felice e spensierata filosofia; questa aveva un unico principio, ben colto dal figlio Tata, che egli esprime con queste parole:

«[…] ora mi rendo conto che Maisie non aveva bisogno di difendersi dalla vita con l’aiuto dell’umorismo. Quando rideva – e rideva molto – quel fragore esplodeva come una profonda e prolungata risposta alla gioia di vivere. Lei non trovava «divertenti» le cose, per lei era la vita a essere un «divertimento».»

Ho trovato questo piccolissimo libro (solo 156 pagine) davvero splendido, e non posso non consigliarne la lettura, soprattutto a coloro che sono affascinati a) dallo stile espressivo degli autori inglesi, così personale a ciascuno di loro eppure così caratteristico, b) dai ruggenti e favolosi Anni Venti, c) dalla situazione che ci propone Angus Wilson: quanti infatti sarebbero curiosi di sapere che cosa i nostri “cari” pensano effettivamente su di noi?
La traduttrice è Adriana Motti.

Matteo Celeste

Per chi suona la cloche
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"Talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine" Collaboratore di Booklandia