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L’arcipelago della nuova vita

di Andreï Makine –
La lettura de “L’arcipelago della nuova vita” di Andreï Makine ti proietta nella taiga russa durante la Guerra Fredda, quando ancora Stalin governa quell’immenso territorio definito U.R.S.S.; una taiga che pare essere immota, splendida e sconfinata. E non può non riecheggiare in te, a ogni passo che i cinque soldati russi compiono in questa difficile caccia di un prigioniero fuggitivo, astuto, risoluto e tenace, il notturno “Razluka” in F minore del compositore russo Mikhail Glinka, che, attraverso le sue note, pare essere in grado di alternare, rappresentandole, la bellezza e l’asprezza insieme di quel florido paesaggio su cui lo sguardo ammirato si posa all’entusiasmo e alle difficoltà insieme dell’inseguimento che pure fiacca i corpi e le menti, che pure chiede riposo a ogni piè sospinto.
Man mano che l’inseguimento prosegue, aumentano le difficoltà, l’ambiente sfida le resistenze di quei soldati che in quella caccia al proprio simile vedono il simbolo di un’U.R.S.S. la cui immagine rischia di incrinarsi, di indebolirsi, e dunque ancora più inclini a portare a termine la cattura; una cattura non facile, non certa: le distanze tra il gruppo di soldati – di cui fa parte anche Pavel Gartsev, il protagonista – e il fuggiasco aumentano, poi diminuiscono, poi aumentano nuovamente, e così via: sta forse giocando con loro quella persona che ritarda la sua cattura? E poi: chi è quell’individuo che osa prendersi gioco di loro e con loro dell’invincibile Unione Sovietica di cui sono i rappresentanti? Gli animi così si scaldano, quasi perdono la razionalità che li governa – forse per il freddo che l’incipiente autunno porta con sé, forse per quell’unità che fugge e nel farlo sembra schernire quel pentagono di uomini, forse per entrambe le cose. Quando quel luogo straniero e straniante ti concede di attraversarlo, lascia anche il tempo al viaggiatore ostinato che talune domande vitali si insinuino nella sua mente in modo dirompente, ineludibile e necessario: proseguo o torno indietro, adesso che mi si parano dinanzi agli occhi le manifestazioni di un autunno incipiente? Sopravvivrò o perirò, se dovessi inoltrarmi ancora in questa taiga bella e amara al contempo? E la mente, nel frattempo lasciata libera di vagare, si dedica a piani e azioni che mostrano la bassezza dell’uomo, la stessa bassezza che qualifica pratiche in uso in quella Unione Sovietica dai gulag remoti, lontani dallo sguardo del sovietico ben irreggimentato, docile. Quella situazione via via estenuante fa emergere le pulsioni di quel «fantoccio», presente in ognuno di noi, come dice Gartsev, che tendono a un principio di piacere dimentico di tutti quegli alti valori con i quali cerchiamo maldestramente di ammantare la nostra immagine, e che paludano invece paure e desideri insopportabili e irrazionali.

«I grandi medici dell’anima speravano di estrarre quel vibrione che ci spingeva a odiare, mentire, uccidere. Ma senza di esso il mondo non avrebbe avuto storia né guerre né grandi uomini.»

Questa storia non ci racconta solo la caccia disperata a un fuggitivo, ci mette di fronte al gioco del mondo che vuole scontri tra alterità, nemici perché ci siano amici, cattivi perché ci siano buoni, e tutto perché ci venga raccontato che, quando catturerai quel fuggitivo – simbolo di ogni male, di ogni cattiveria –, tu potrai dirti parte dei buoni, degli amici; sarai legittimato a definirti financo un eroe.

«Sì, raggirare, mentire, colpire, vincere. La vita umana. Un bambino si stupirebbe: perché tutto ciò? In questa bella taiga, sotto questo cielo pieno di stelle. L’adulto non si sorprende, trova una spiegazione: la guerra, i nemici del popolo… E, quando la situazione diventa proprio invivibile, ti parla di Dio, della speranza! Cosa se ne fanno della luce divina i bambini che annegano sotto il ghiaccio?»

Ecco però che insperabilmente per Pavel Gartsev si apre un’opportunità da questo inseguimento, un’altra vita possibile. Sì, questa caccia all’uomo, questa sfida costante di fronte alla quale l’inseguimento lo pone, questi ondivaghi beccheggi tra un ostacolo e il suo superamento, a cui approda per far parte di quel gioco del mondo per partecipare al quale «[bisogna] desiderare, odiare, aver paura», gli fanno comprendere una verità più profonda, più incompresa: quello a cui ci pieghiamo è il gioco crudele, cinico e barbaro del mondo, che vuole che il nostro “fantoccio” governi in ogni momento il nostro comportamento, il nostro pensiero, facendoci anelare, piacere, ricercare cose non davvero necessarie, formando in noi paure ingiustificate e illogiche; ma vivere, sembra dirci questa affascinante storia, richiede davvero poco, quasi niente. Stracciare quel fantoccio è il preludio a una vita più ricca di significato, più profonda, più intensa. Questo ci insegna, al di là di quell’inseguimento estenuante attraverso la taiga, la storia che “L’arcipelago della nuova vita” ci racconta.
P. S.: Il traduttore è Vincenzo Vega.

Matteo Celeste

“L’arcipelago della nuova vita” di Andreï Makine
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"Talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine" Collaboratore di Booklandia