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L’amica geniale

di Elena Ferrante –
Tutti conoscono la mia conclamata idiosincrasia per i casi editoriali, ma questa volta siamo di fronte a un fenomeno sociale o di costume, sul limes dell’evento nazional-popolare, che, in quanto tale, è assolutamente ineludibile per ragioni sociologiche, ancor prima che letterarie.
Appellandomi alla clemenza della Corte, confesso di aver letto “L’amica geniale” di Elena Ferrante. La tentazione era forte, impossibile resistere come insegna Wilde, ed era forte per due motivi: rappresentava un passo, forse decisivo, per liberarmi dall’etichetta di polveroso intellettuale intento a vagliare la miglior tradizione dell’Ulysses di Joyce, ed era un piccolo passo per la mia umanizzazione che potevo fare sorbendomi la scrittura di una donna che, oltre ad essere una delle cento persone più influenti del pianeta secondo “Time”, al secolo ha un curriculum letterario e editoriale di tutto rispetto, cosa destinata a ridurre i rischi ai minimi termini.
Infatti, ci tengo subito a dirlo, il libro è ben scritto. Lo stile è curato e mai banale. Può dare l’idea che un certo rigore schematico nel gestire paragrafi e capitoli in forma di quadretti sia un ammiccamento alla fiction che ne ha vidimato il successo, ma non credo sia questo il motivo, quando piuttosto la ricerca di un ritmo narrativo che fosse in sintonia con un bacino d’utenza il più trasversale possibile. Del resto l’autrice, obbligata allo pseudonimo da altre ragioni, non poteva aver preventivato il cancan mediatico che ne sarebbe seguito, e si è limitata a sfruttare al meglio questo manna caduta dal cielo dei tempi che corrono… “corrono” potete sostituirlo con “currunt” se, come me, faticate a tralasciare un “mala”.
La trama è originale, sia pur riportando gradevolmente alla memoria romanzi che hanno ambientazione simile e spessori diversi. Lo stesso si può dire della figura di Lila, e in parte anche di quella di Lenù, che svolgono bene il ruolo di cartine tornasole di una città in precario equilibrio tra il dopoguerra e il primo pragmatico benessere economico che proprio nella guerra affondava le radici. Ma i temi storici e sociali non spiccano, rimangono un semplice fondale, come quelli col Vesuvio, ingenui e un po’ sbiaditi, del Teatro del Grande Eduardo.
Sarà necessario spendere due parole anche sul successo della fiction, erede di quello straordinario del libro, ma anche di modalità di fruizione del tutto innovative: utilizzando Raiplay o altre piattaforme, è possibile eliminare la pubblicità e leggere a video, inserendo un segnalibro mediatico e riprendendo la “lettura” non momento e nel luogo a noi più consono. Anche i tempi sono identici: circa otto ore per leggere il libro, circa otto ore per le otto puntate della serie, con la possibilità di una corrispondenza pressoché perfetta di contenuti, senza che, come sempre accade, la narrazione per immagini risulti un insipido liofilizzato di quella che si è valsa dell’inchiostro.
Un giudizio finale?
Impossibile, troppo rumore di fondo da superare.
Alle urla talebane dei detrattori, che vorrebbero liquidarlo come moderno romanzo d’appendice, si sovrappongono quelle degli estimatori incondizionati, e si mischiano alla sterile polemica Napoli era così/Napoli non era così, come se il fascino di Napoli non fosse proprio quello di essere mille Napoli diverse, in caleidoscopica sovrapposizione e perenne movimento. Il tutto mentre la critica seria ha gioito dei numeri da guinness per fare Ponzio Pilato e lavarsene le zampe. L’unica possibilità sarebbe che il libro uscisse oggi con un nome e cognome di media caratura per offrire al lettore l’opportunità di approcciarlo senza pregiudizi e condizionamenti. Chi è in grado di notare davvero pregi e difetti di qualcosa che, ormai da anni, fissa tutti i giorni più volte al giorno? Chi è in grado di giudicare una trama che conosceva a menadito ben prima di prendere il libro in mano? Me ne laverò le mani anch’io… ma perlomeno dopo essermele sporcate d’inchiostro nello scrivere queste righe.

Riccardo Gavioso

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