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La primavera romana della signora Stone

di Tennessee Williams
Il libro del quale vorrei lasciarvi qualche impressione è uno dei due soli romanzi scritti dal drammaturgo, scrittore, sceneggiatore e poeta statunitense Tennessee Williams: “La primavera romana della signora Stone”. 
Prima di addentrarmi in considerazioni sul libro stesso e sulla sua trama, non posso non constatare una capacità del tutto particolare degli scrittori del “Sud” degli Stati Uniti – che sembra endemica – di dare vita alle storie che raccontano attraverso un linguaggio di una potenza espressiva sorprendente, una sintassi che non si addobba di molti o eccessivi fronzoli, che è, cioè, “condita al punto giusto”, e con una prosa che va diretta al punto, che non gira troppo intorno alle cose che deve dire. In definitiva, una scrittura limpida e tersa, come il riflesso di noi in uno specchio d’acqua cristallino che ci rivelasse il nostro stesso intimo senza barriere o artifici di sorta.
Questo stile narrativo è quello che scaturisce dalla penna di Tennessee Williams (che nacque a Columbus, nel Mississippi). Che scaturisce anche da quelle di Truman Capote (che nacque a New Orleans, nella Louisiana), però, o di John Steinbeck (che nacque a Salinas, in California), ad esempio.
Un dono condiviso, insomma. (L’unico che, a mia conoscenza, sembra non avere ricevuto questo dono è William Faulkner (che nacque a New Albany, nel Mississippi); ma si sa che non tutte le ciambelle escono col buco…) 

Ora, il libro “La primavera romana della signora Stone” parla della scelta della signora Stone, attrice di teatro che ha deciso di abbandonare i palcoscenici di Broadway, raggiunta oramai la menopausa e venuta così ad essere intaccata dagli anni la bellezza che un tempo la contraddistingueva e che tutti le riconoscevano, nonché dopo la morte del marito Tom Stone, di trascorrere un periodo nella città eterna: Roma. 
Qui, sarà adocchiata come possibile “preda” da una vecchia contessa italiana che ha messo su un mercato di “marchette”, a insaputa delle ignare signore e degli ignari signori americani che cadono nella sua trappola (signora Stone compresa), per appropriarsi delle sue ricchezze. 
A questo punto si intrecceranno le vite della signora Stone, della contessa, che ha bisogno dei soldi delle ricche signore americane per vivere, e di Paolo, un bellissimo romano, ma anche burbero e detestabilmente vanitoso, appartenuto, forse – in quanto sembra essere anche bugiardo –, all’aristocrazia capitolina, il quale sarà la “marchetta” che cercherà in tutti i modi di entrare, dietro insistenza della anziana nobildonna italiana, nel cuore (e nelle tasche) della ricchissima signora Stone.
La quale all’inizio è ignara, come tutte le prede della contessa, di tutto, ma che poi, per stessa confessione della contessa, certa a quel punto che non otterrà nulla da Karen – questo il nome della signora Stone –, resterà al gioco, per un motivo serio, però: ha la netta sensazione, apparentemente ineliminabile, di vivere un periodo particolare della sua vita, uno di quei

«periodi in cui la vita si vela di un senso di irrealtà, in cui si smarrisce ogni certezza, in cui la volontà razionale, o ciò che si riteneva tale, perde ogni controllo o pretesa di controllo. In tali momenti, si ha la sensazione di andare alla deriva, se non di essere sommersi, in un mondo di vapori e di acque che ci incalzano con furia violenta, tumultuanti.»

E questo stato si riflette anche nel rapporto tra lei e Paolo, un rapporto che in realtà sembra quasi non esserci, in cui i termini della relazione paiono viaggiare in parallelo senza mai incontrarsi; una relazione non certo “calda”, bensì vissuta all’insegna dell’accondiscendenza e della perdita graduale, ma non totale, da parte di Karen, della propria dignità. 
Questa la trama.  
Voglio però dire un’ultima cosa su una caratteristica che ritengo essere comune alle opere di Tennessee Williams. Nei suoi lavori si intravede sempre un tratto condiviso, direi: un presente che non è mai vissuto con serenità, non solo perché la vita è anche sofferenza, ma soprattutto perché, almeno così mi sembra di aver colto in quest’opera, è il passato a ritornare dirompente nel presente e a influenzarne il corso.  

Così, per parlare de “La primavera romana della signora Stone”, si assiste al ricordo del marito deceduto riaffiorare nella mente di Karen Stone non appena conduce Paolo nella medesima sartoria dove Tom Stone si era fatto fare un vestito su misura qualche tempo prima che morisse (tra l’altro dello stesso tessuto che il sarto userà per confezionare il vestito di Paolo), un ricordo che, come si può immaginare, turberà la signora Stone. 
E, ancora, un altro turbamento per Karen deriva dal fatto che la signora Stone sembra aver legato la sua bellezza (quella di un tempo, ovviamente, e oramai sfiorita), allorquando calcava, come attrice, i palcoscenici dei teatri di Broadway, alla possibilità di avere un controllo sulla realtà, giacché proprio quella beltà le aveva permesso di stare al centro dell’attenzione, di vedersi rivolgere tutti gli sguardi e le cure che spettano a una vera e propria diva; le aveva consentito di fare, cioè, il bello e il cattivo tempo; e ciò le aveva dato la percezione (chi sa quanto reale poi) di avere un controllo sulla realtà. Ma, a Roma, dove era andata per fuggire dall’America, che l’avrebbe così ricordata giovane, brava e (soprattutto) bella, tutto questo pareva non valere più. Si sentiva così sempre più «alla deriva». Non aveva più il controllo di nulla.
Il sentimento che provava, come più sopra descritto, era quello di chi fosse in balìa degli eventi o governato dalla realtà, e che non fosse più in grado di governarla, al contrario. Sembrava non riuscire più, in estrema sintesi, a imprimere al corso degli eventi la direzione che, in circostanze diverse, non avrebbe avuto difficoltà a improntare. 

La cosa che sempre mi sorprende delle opere di Tennessee Williams è non solo la tensione palpabile tra passato e presente che si insinua fastidiosamente nella vita di tutti i personaggi – non solo in quella dei protagonisti –, emblematico, a tal proposito, è il caso de “La gatta sul tetto che scotta”, ma pure, e vale lo stesso esempio come chiarificatore, la risoluzione di questa tensione che straordinariamente ha uno sfogo, che conduce, infine, a una sorta di distensione degli animi di tutti coloro che sono coinvolti nella storia, che porta a una pace “chiarificatrice” con il passato e tale da consentire loro una ripresa più serena delle loro vite, se non di tutti, almeno di qualcuno di loro. 
Per concludere, non credo, nonostante ciò che ho detto, che “La primavera romana della signora Stone” sia un libro grandioso, imprescindibile o al quale si possano attribuire aggettivi esagerati di questo genere. È un libro certamente piacevole, che si fa leggere, e ha il pregio di essere molto breve (146 pagine), quindi perché non leggerlo se abbiamo del tempo da occupare? 
La traduzione è di Bruno Tasso.

Matteo Celeste

La primavera romana della signora Stone

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"Talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine" Collaboratore di Booklandia