fbpx

Il treno dei bambini

di Viola Ardone

Io scarpe mie non ne ho avute mai, porto quelle degli altri e mi fanno sempre male. Mia mamma dice che cammino storto. Non è colpa mia. Sono le scarpe degli altri. Hanno la forma dei piedi che le hanno usate prima di me. Hanno pigliato le abitudini loro, hanno fatto altre strade, altri giochi. E quando arrivano a me, che ne sanno di come cammino io e di dove voglio andare?

Immaginate un treno in partenza pieno di bambini e uno sciame di cappottini che vengono lanciati dai finestrini e afferrati da donne in attesa sui binari: è una delle immagini con la quale si apre il romanzo di Viola Ardone e che racconta fatti realmente avvenuti almeno nell’evocazione storica, dal momento che i personaggi della trama sono per lo più inventati tranne qualche rara eccezione. La vicenda è poco nota ai più ma è reale: al termine della seconda guerra mondiale molte famiglie dell’Italia meridionale soffrivano di indigenza causata dai disastri bellici appena trascorsi e in primo luogo i bambini di queste terre erano vittime incolpevoli di uno stato sociale del tutto assente. L’Italia settentrionale non se la passava molto meglio ma almeno in quelle zone, forti di un’economia non del tutto distrutta, si riuscivano a garantire livelli minimi di sopravvivenza accettabili.
A colmare questo vuoto economico e sociale delle zone del Sud pensò l’allora Partito Comunista Italiano, unica realtà insieme alla Chiesa, ad essere presente sul territorio con una presenza radicata in tutte o quasi le parti d’Italia. Quello che riuscirono a mettere in piedi gli uomini ma soprattutto le donne di quel partito fu una gara di solidarietà fra famiglie del Nord nei confronti di quelle del Sud. Le autorità ecclesiastiche di allora cercarono di ostacolare quest’operazione, in uno scontro dal sentore più politico che di ingerenza in quella missione di carità della quale ritenevano di avere l’esclusiva. Ma proprio stava la differenza, perché non di carità dal ricco che si priva di qualcosa per darlo al povero ma di solidarietà fra pari in un clima di fortune sbilanciate a favore di una dei due soggetti i quali avevano modo di condividere per un periodo la stessa sorte. Si potrebbe discutere sull’opportunità di un’operazione senz’altro meritevole negli intenti ma che aveva sicuramente il limite di creare aspettative di un mondo impossibile da raggiungere per quei bambini, una volta ritornati alle loro famiglie di origine e questo potrebbe essere un ulteriore spunto di riflessione che offre questo romanzo, ma torniamo ora alle vicende oggetto della narrazione.
La solidarietà di cui sopra consisteva semplicemente nell’ospitare e farsi carico per qualche tempo, della sopravvivenza di alcuni bambini provenienti dalle zone depresse. Furono così organizzati i cosiddetti ”treni dei bambini” nei quali i figli di un sud che faticava a rialzarsi dalle devastazioni della guerra andavano a ricevere sostentamento dando così sollievo alle famiglie di provenienza le quali, per un certo periodo anche se breve, non erano costrette a pensare al loro mantenimento.
I bambini furono distribuiti in diverse zone del nord Italia e maggiormente, è comprensibile, nelle zone tradizionalmente appannaggio di consensi del PCI e delle forze di sinistra in genere.
Il racconto che ci riguarda fa terminare la corsa di quel treno quindi in Emilia e per la precisione in provincia di Modena, dove il nostro protagonista, Amerigo Speranza un nome che è già promessa di romanzo in se stesso, viene accolto da una strana donna di nome Derna, una donna senza marito e senza figli, impegnata nell’attività di partito e sindacato. Questa madre improvvisata dovrà necessariamente appoggiarsi alla famiglia della sorella Rosa, madre di tre figli che il marito chiama rispettivamente Rivo, Luzio, Nario, e che il genitore si diverte a nominare in sequenza sia come auspicio sia in osservanza della tipica tradizione della gente modenese di chiara tendenza anticlericale che cercava di mettere ai figli nomi non presenti sul calendario per non dover sottostare al giogo dei santi del calendario. Una sorta di seconda famiglia che accoglierà durante il giorno, perché la sera Amerigo va a dormire in casa di Derna, questo strano bambino dai modi e dal linguaggio a dir poco alieni al mondo rurale di un’Italia ancora divisa nei dialetti e negli usi. Ci vorrà la televisione, che sarebbe sopraggiunta soltanto di lì a pochi anni a cancellare queste distanze, omologando e forse portando a termine quell’unità d’Italia fino a quel momento forse soltanto sulla carta.
L’autrice non tralascia di mostrare anche i difetti di un partito, quello comunista, monolitico e se pur di stampo progressista, il quale manteneva al suo interno un chiaro orientamento maschilista, dove il ruolo delle donne era relegato a settori e attività a loro modo di vedere, tipicamente femminili. Se ne accorgerà facendone in qualche modo le spese a un certo punto Derna, la donna single che cercherà di fare da seconda mamma ad Amerigo.
Il romanzo raccontato in prima persona dal protagonista è strutturato su due livelli temporali ben distinti: una prima parte nella quale il mondo è visto con gli occhi di Amerigo bambino, con tutte le ingenuità, le paure ma anche l’incoscienza di un’età non ancora matura e una seconda parte narrata dallo stesso personaggio ormai adulto, strutturato nella sua posizione di apparente solidità e segnato, forse come tutti, dalle scelte operate nel corso della sua vita.
Asse portante del romanzo è anche il rapporto del piccolo Amerigo con la madre naturale, quella madre provata dalle difficoltà di una vita vissuta nella miseria e nell’ignoranza, incapace di dimostrare amore per il figlio, se non con il gesto estremo di affidare la propria creatura a estranei, nella speranza, parola che suona anche nel cognome che entrambi portano essendo il padre di Amerigo ignoto, di poter garantire al proprio figlio, anche solo per un momento, quella qualità di vita che lei non sapeva e non poteva dare.

Mia mamma avanti e io appresso. Dove stiamo andando non lo so, dice che è per il mio bene. Invece ci sta la fregatura sotto, come per i pidocchi. È per il tuo bene, e mi ritrovai con il mellone.

Interessante vedere come il rapporto fra i due, madre e figlio cambierà nelle due parti del libro, ma qui non voglio anticipare niente anche per non togliere al lettore il gusto della narrazione.

Tutti gli anni che abbiamo passato distanti sono stati una lunga lettera d’amore, ogni nota che ho suonato, l’ho suonata per te.

La bravura della Ardone sta proprio qui a mio modo di vedere, nell’essere riuscita a trasportare il pensiero da quello di un bambino a quello di un adulto mantenendone la coerenza e dando credibilità al personaggio, pur cambiandone la struttura, il tutto sul filo impercettibile dell’ironia presente nelle sviluppo del racconto.
Ma tornando invece all’immagine iniziale ci si chiederà il perché di quei cappottini volati al di fuori del treno. La risposta è molto semplice: il lancio era il frutto di un accordo tra le madri e i loro figli, i cappotti donati dall’organizzazione di quei viaggi che aveva rivestito di tutto punto i bambini, anche per affrontare le rigidità di un clima al quale non erano avvezzi, dovevano servire ai fratellini più piccoli rimasti con le madri, una sorta di passaggio di consegne, una solidarietà questa volta familiare, un tributo nei confronti di altri bambini meno fortunati che erano costretti a rinunciare agli agi ai quali erano destinati i loro fratelli maggiori.
Il libro, poco più di duecento pagine, si legge d’un fiato, merito di una prosa scorrevolissima, nella quale espressioni idiomatiche derivate dal dialetto partenopeo si mescolano con la parlata della bassa padana, nei dialoghi fra bambini che si ritrovano a condividere un banco di scuola:

Io resto solo in fondo. Poi uno dei bambini che erano seduti al primo banco si avvicina e mi prende per mano. «Am chièm Uliano,» mi fa. Io faccio di sì sì con la testa e resto zitto, perché con la tabellina del due va bene, ma le lingue straniere non sono arte mia

Roberto Maestri

Il treno dei bambini
Seguimi
Latest posts by Roberto Maestri (see all)

Roberto Maestri

"Leggendo cerco me stesso". Collaboratore di Booklandia