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Il giardino delle delizie

di Joyce Carol Oates –

«Osi vedere un’anima al calor bianco?» – il primo, straordinario verso di una delle poesia più enigmatiche e forse anche più personali di Emily Dickinson mi è sempre sembrato una metafora ideale della passione per la scrittura. Perché provare quel calor bianco non ha nulla a che vedere col comprenderlo, e ancora meno col controllarlo. Si riceve «un’ispirazione» – ma cosa significa, esattamente? Ci si sente potenti, elettrizzati, affascinati, euforici e, col passar del tempo, esausti; eppure, non si è mai certi del valore di quello che si è creato per gli altri, o anche solo per se stessi.

Il giardino delle delizie, prima parte della quadrilogia dell’Epopea americana, in questa edizione riveduta e in parte riscritta dall’autrice.
Il romanzo in tre parti, descrive la vita e l’ambiente dell’America rurale che va dagli anni della grande depressione degli inizi degli anni ’30, fino alla rinascita economica del secondo dopoguerra. È una vita dura quella dei raccoglitori agricoli, la feccia bianca, come venivano definiti i raccoglitori stagionali con disprezzo, costretti a un nomadismo forzato, inseguendo le stagioni e i raccolti, spesso vivendo in condizioni al limiti dell’umanità e della decenza, quasi ad anticipare circostanze di vita e di lavoro simili a quelle dei nostri immigrati attuali nelle campagne del nord del Mediterraneo.
Protagonista di questa storia è Clara, ragazza cresciuta troppo in fretta e troppo in fretta e costretta a condividere il lavoro e la miseria della sua gente, fra un padre spesso ubriaco e violento e una madre la cui unica attività sembra essere quella di partorire figli, fino a bruciarsi nella sua follia. Clara avrà il coraggio di fuggire da tutto questo, di cambiare vita o almeno di provarci, innamorandosi non corrisposta, di un uomo che le indicherà la strada, senza però fermarsi con lei a condividere la sua nuova vita. Clara riuscirà comunque a trovare il suo riscatto sociale e a costruire un avvenire per Swan, il figlio nato nel frattempo.

«Non sei una che piange tanto, ragazzina, vero?»
Non era una domanda. Non richiedeva alcun tipo di risposta. Lowry non aveva domande per Clara, né per chiunque altro.

L’intreccio della vicenda ci racconterà lo svolgersi della vita di madre e figlio, i quali cresceranno e cambieranno nel corso del tempo, così come cambierà la vita attorno a loro, nel tentativo di dimenticare quella provenienza che segna come un marchio indelebile la loro condizione, la colpa di essere e rimanere, nonostante tutto, nient’altro che feccia bianca.
Il romanzo è molto realistico nella sua crudeltà, nei suoi episodi violenti in assenza di falsi pudori. La realtà di emarginazione dei propri protagonisti, specie nella prima parte, è descritta in totale oggettività, senza filtri, mentre le sottigliezze psicologiche sono riservate alle due parti successive, nel momento in cui la vita dei protagonisti diviene più complessa e intrecciata con i vari elementi della narrazione.
Un libro crudele come può essere crudele la vita e come tale va affrontato, direi quasi di petto; solo così a mio avviso, si possono comprendere le ragioni che portano Clara e non solo lei a compiere le scelte che condizioneranno la sua vita e quella di chi le sta intorno.
Un’ottima scrittura quella della Oates, che inchioda il lettore fino all’ultima pagina, che invoglia a pensare con benevolenza a chi, nella storia, può agire in quanto vittima di circostanze in molti casi estreme.

Roberto Maestri

Il giardino delle delizie
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"Leggendo cerco me stesso". Collaboratore di Booklandia