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I bambini del secolo

di Christiane Rochefort –
Un libro dall’incipit più forte e cinico che io abbia mai letto, una trama che mette in luce una sofferenza adolescenziale, certamente connessa alla scoperta di Sé che caratterizza questa fase di sviluppo, che si intreccia in modo brillante con una critica o una vera e propria accusa, a ben guardare, della società borghese, della vita e della morale borghese e dei valori, usi e costumi della borghesia, e una scrittrice dimenticata ma che fu tra le più ferventi femministe francesi ed esponenti di primo piano e sempre in prima linea in tutte le battaglie politiche del progressismo francese del secolo scorso, e che suscitò scandalo all’uscita di ciascuna sua opera, a partire dalla prima, nel 1958, dal titolo “Il riposo del guerriero”, sono il degno curriculum che accompagna l’opera della quale tenterò di lasciare qualche mia impressione: “I bambini del secolo” di Christiane Rochefort. 
“I bambini del secolo” parla della vita che conduce, durante gli anni ’50, una famiglia povera della periferia francese, vista dall’interno, ossia dalla prospettiva privilegiata degli occhi inclementi dell’insolente e insofferente Josyane, una tra gli undici figli di questo numeroso nucleo familiare. 
Josyane, la maggiore tra i suoi fratelli e le sue sorelle, ce l’ha con tutti: con i genitori, praticamente assenti sul piano emotivo e fisico, privi di amore, si può sospettare, per i loro figli; con i fratelli e le sorelle (non tutti) che, come anche per gli altri bambini, li considera stupidi, idioti, poco interessanti; e, crescendo, inizierà a sviluppare una “intolleranza” anche nei confronti della morale borghese, anzi, di tutto ciò che ha a che fare con la borghesia, che spesso appare ipocrita e deleteria. 
Una delle conseguenze più inaccettabili dei valori borghesi e della società capitalistica che li accompagna, sembra dirci Christiane Rochefort nel libro, è la mercificazione: ogni cosa, pure un figlio, pare avere un suo prezzo o un suo equivalente merceologico. 
Così, la famiglia di Josyane vive grazie agli assegni familiari concessi alle famiglie per ciascun figlio messo al mondo. In questo contesto, l’operazione matematica elementare che svolgono i genitori della protagonista è quella di associare a ogni figlio un prodotto utile per poter sopravvivere al meglio: perciò, a un figlio equivale la lavatrice, a un altro la lavastoviglie, a un altro ancora l’automobile e via dicendo, spiegando in tal modo il totale di undici figli messi al mondo. 
L’incipit è esemplificativo in tal senso:

«Sono figlia degli assegni familiari e di un giorno di festa la cui mattina si stiracchiava, beata, al suono di “Je t’aime, tu m’aimes…” suonata dolcemente da una tromba. Era l’inizio dell’inverno, a letto si stava bene e non c’era niente che mettesse fretta.» 

“Sono figlia degli assegni familiari”: questa frase, e molte altre simili a essa, mi ha colpito nel profondo; ha prodotto in me brividi dietro alla schiena; ha sviluppato in me un autentico disprezzo per i suoi genitori, non posso negarlo. 
Si potrebbe fraintendere, a questo punto, la posizione della scrittrice, identificandola con Josyane, ma io non credo che ciò si possa fare: la Rochefort sta, a dispetto della posizione di Josyane, con i giovani, la giovinezza e la libertà; e se si adopera lo sguardo di Christiane si scorge un’idea dei giovani molto diversa da quella di Josyane: Christiane Rochefort li vede insolenti e irrispettosi (qualità positive per lei, mi pare), liberi, avversi all’autorità e irridenti la stessa.
Ma, come contraltare, i giovani, con gli occhi dei loro genitori, espressione della borghesia più gretta, vengono visti non solo come oggetto di mercificazione, ma anche come una sorta di forza lavoro domestica, inutile dire essere per la maggior parte femminile. 
C’è, nella descrizione della società borghese che Christiane Rochefort dà, e che in questo libro (come pure nei suoi altri) critica, della periferia francese e degli operai e delle famiglie povere che la abitano, una rappresentazione che non può che assumere i connotati della «miseria e della bruttezza», come sosteneva Albert Camus. In un passo che ben si adatta all’argomento di cui sto parlando, a mio avviso, tratto dal libro giovanile “Il Rovescio e il Diritto”, Albert Camus scrive:

«quando la povertà va unita con quella vita senza cielo né speranza che giunto in età virile ho scoperto negli orribili sobborghi delle nostre città, allora viene consumata l’ultima e la più rivoltante delle ingiustizie: bisogna realmente far di tutto perché questi uomini scampino alla duplice umiliazione della miseria e della bruttezza. Nato povero, in un quartiere operaio, però io non sapevo che cosa fosse la vera sventura prima di conoscere le nostre fredde periferie. Nemmeno l’estrema miseria araba è paragonabile, sotto cieli diversi. Ma una volta conosciuti i sobborghi industriali, ci si sente, credo, insozzati per sempre, e responsabili della loro esistenza.» 

In questo libro, come spero di aver mostrato, c’è molto, non solo la storia di una famiglia francese povera degli anni ’50; vi è una fortissima critica alla società borghese nel suo complesso. 
Credo sia un’opera (e un’autrice) che merita di essere riscoperta, poiché, sebbene sia datata – la sua prima pubblicazione risale al 1961 –, come viene scritto nella sua Introduzione, «mantiene ancora oggi una incredibile forza di ribellione.» 
La traduttrice è Vittoria Biagini.

Matteo Celeste

I bambini del secolo

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"Talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine" Collaboratore di Booklandia