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Eravamo immortali

di Manolo Zanolla –
C’è stata un’epoca, ormai penso di poter dire così, tra gli anni ’70 e gli ’80 del secolo scorso in cui con un gruppetto di amici si andava scoprendo un nuovo sport. Noi lo chiamavamo “arrampicata libera”: oggi è il free climbing. Imparavamo le discese in corda doppia lungo i muraglioni che costeggiano via Ungaretti a Pegli, da poco aperta. Provavamo a salire in aderenza sul “Masso Basso”, un macigno alto alcuni metri incastonato in un anfratto di via Laviosa; oppure si andava sulle scogliere di Crevari a provare gli strapiombi mentre i traversi si facevano a Punta Vagno, alla Foce. Si chiamava “sassismo”, oggi fa più figo chiamarlo “bouldering”.
Abbiamo assistito alla nascita delle prime palestre per l’allenamento indoor e all’evoluzione delle imbragature che da alte (con gli spallacci) sono diventate “basse” (con i soli cosciali e cintura in vita) discutendo per ore su cosa sarebbe accaduto in caso di caduta a testa in giù.
Anche le scarpette cambiarono: dalle “salamandre” nere e gialle alte alla caviglia divennero sempre più minimali e strette. Tanto strette che per potertici abituare le mettevi anche in casa.
Si facevano le collette e si andava a Finale in quattro o cinque più gli zaini dentro la 126 dell’unico patentato.
Erano gli anni di gente come Patrick Berhault (morto in montagna nel 2004), Patrick Edlinger (morto in casa cadendo da una scala nel 2012), Jean-Marc Boivin (morto facendo base jumping in Venezuela nel 1990), i francesi che venivano dal misterioso Verdon. Ancora più mistica ci appariva la Yosemite Valley con il suo El Capitan da dove importammo l’uso di nut e friends per assicurarci, senza mai fidarci troppo però.
Ma anche in Italia avevamo il nostro mito, il nostro riferimento verticale: Maurizio Zanolla meglio conosciuto come Manolo o “Il Mago”. E’ una fortuna che l’ammirazione che suscitava in noi sia sempre stata controbilanciata dall’istinto di sopravvivenza e non dall’emulazione altrimenti, con buone probabilità, non sarei qui oggi. Manolo arrampicava in maniera incredibile e su gradi che noi, neanche lavorandoli assiduamente e arrampicando in moulinette (cioè con la corda dall’alto: oggi che siamo più vittime degli anglicismi si dice “top rope”) ci saremmo mai sognati di fare. E in più lui andava senza corda!
Manolo, a differenza dei suoi colleghi, è un sopravvissuto: nel suo libro ci racconta diversi episodi dove la morte l’ha sfiorato. Quando il margine per l’errore è nullo è un evento possibile. A lui è andata bene: a diversi suoi amici e compagni di arrampicata purtroppo no. Qualcuno ha anche ceduto alla droga, qualcuno è morto di cirrosi epatica o in incidenti stradali, qualcuno si è rovinato la vita con episodi di microcriminalità.
“Tutta questione di fortuna” dice. “Bisogna essere fortunati. Mi sentirei un arrogante se fossi convinto di essere uscito da certe situazioni semplicemente perché ero preparato o bravo”.
Ma preparato lo era certamente. Oggi purtroppo sono in troppi quelli che passano qualche ora davanti ad un computer e si sentono pronti per affrontare qualsiasi impresa. Magari senza guardare nemmeno il Meteo. La tecnologia ti dà un sacco di false sicurezze. “Ricordiamoci che in montagna basta mettere il piede in un modo sbagliato sul sentiero per far sì che quella diventi l’ultima cosa che fai in vita tua…” ci ricorda. E se lo dice lui…
Zanolla è uno che nel 1978 ha aperto 28 vie in un mese. Uno che a 54 anni suonati ha aperto una via di grado 9a e che a 59 anni ha ripetuto una via aperta nel 1981. Qui si parla di uno preciso, preparato, allenato. E che gli unici quattro incidenti gravi li ha avuti in macchina. E non guidava lui.
Ma la grandezza di Manolo non è stata solo tecnica, di vittoria contro la forza di gravità. Scordate di poter accostare Manolo all’arroganza dei selfie-sportivi di oggi. Era figo, con un fisico da paura, faceva cose incredibili: sarebbe stato un piatto ghiotto per le sponsorizzazioni. Ma quando lui capì che l’arrampicata da rapporto con la Natura stava diventando “sportiva” cosa fece? Si ritirò dalla scena. Costruì letteralmente con le sue mani una casetta tra le sue montagne e lì andò a vivere. In disparte.
“Non mi piacciono le gare” spiega “perché non mi piace la logica della gara. La meta non è la cima, è il viaggio, quello che resta dentro di te, il mondo che ti risuona dentro”.
In questo mi sento vicino al “Mago”. Personalmente ho chiuso con l’arrampicata quando in falesia si cominciava a venire giudicati e classificati solo dal grado raggiunto in parete. Quando alle partenze trovavi nerboruti ragazzotti che spegnevano sigarette e canne lasciando senza rispetto i mozziconi nel bianco calcare.
Quando, come dice lui, vidi che il viaggio non contava più.

Gerardo Capaldo


Manolo – Verticalmente Dèmodè
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