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Città sola

di Olivia Laing
Il libro di cui vorrei parlarvi è “Città sola” di Olivia Laing. Mi piace molto il contrasto semantico dei due termini che costituiscono il suo titolo, è ciò che mi ha da subito colpito: la “città” mi suggerisce l’affollamento, la numerosità, la rumorosità, le interazioni; “sola”, invece, mi parla di isolamento, unicità, individualità, dell’essere isolato.
Questo libro, come è scritto in esergo al suo inizio, è dedicato ai solitari. Quindi è dedicato un po’ anche a me; forse per questo l’ho sentito mio sin dalle prime pagine. Questo libro, che è un ibrido tra saggio “sociale” e memoir, parla di solitudine, di alcune fogge ch’essa può assumere, dell’impatto ch’essa può produrre sulle persone che la vivono e di come l’arte possa aprire una finestra su un mondo interno incompreso da parte dei più.
L’autrice, con quest’opera, attraverso soprattutto la storia di quattro artisti a lei particolarmente cari (ma non gli unici di cui parlerà) – Edward Hopper, Andy Warhol, Henry Darger e David Wojnarowicz –, crea una vera e propria «mappa della solitudine» a lei (e a noi) necessaria per orientarsi all’interno del mondo della solitudine, all’interno di quello che è «un posto molto speciale». 
Sarà chiaro allora che la “città sola” è la condizione dell’umano che si trovi in una folla in cui nessuno gli pare familiare, è il canto disperato dell’usignolo quando dattorno nessuno lo comprende, un’intimità non corrisposta, non ricambiata, o, ancora, quella fragile sensibilità che, nell’aprirsi all’universo, non riceve riconoscimento, rispondenza.
La “città sola” è un eloquente quadro di Edward Hopper. È il registratore di Andy Warhol. È la tela disorientante di Henry Darger. È il volto di Rimbaud copiato a iosa da David Wojnarowicz.  
Ora, nell’atto di analizzare e di dar voce a quelle inascoltate “città sole”, emerge dirompente e accecante un tema connesso con la solitudine: le colpe o le responsabilità della società nel perpetrare le condizioni che favoriscono o esacerbano la solitudine in quelle persone propense a viverla, perché gli esseri umani «tendono a emarginare gli individui che non sanno inserirsi in un gruppo».  
Questo saggio-memoir ha quindi come tema tanto la solitudine quanto anche alcune delle responsabilità della società che isola coloro che sono di per sé isolati, emargina chi è già emarginato, acuisce la solitudine di chi solo lo è già, senza impegnarsi davvero a spezzare questo circolo vizioso.  
Mi sembra in definitiva di aver colto questa domanda al cuore dell’opera di Olivia Laing: che cosa fare con la solitudine che ci costringe nel nostro “Regno dell’irreale”, come lo chiamava Henry Darger, in quella “Città sola” eppure così ricca di potenzialità, di espressività non comprese al di fuori dei suoi confini, e che spiega il profondo senso di incomunicabilità, di estraneità, di sradicamento che chi si sente solo prova? Una risposta, che non vuole certo essere esaustiva né la soluzione di tutti i mali, è quella che la Laing dà in questa sua opera: l’arte. L’arte, quale ne sia il medium, consente a chi prova una estraniante solitudine di lanciare quel messaggio che a lungo è rimasto incompreso e che, in quella forma, che l’artista gli dà, può trovare un’alterità ricettiva, qualcuno disposto a comprenderlo. Questo, però, come appare chiaro dalla lettura, non lenisce affatto il senso di solitudine, gli dà solo un indirizzo diverso rispetto al consueto antro del suo riposo. Una volta che la solitudine t’avviluppa, ti rimane addosso, e la società, ci dice Olivia Laing, non fa alcunché per liberartene, come già ricordato: concorre a creare quel circolo vizioso a cui prima facevo riferimento: colui che si sente estraneo alla società, diverso rispetto ai canoni ch’essa professa (e perciò stesso solo), è estraniato dalla stessa, riconosciuto come diverso ed emarginato (e perciò stesso reso ancora più solo).  
“Città sola” ci mette di fronte alle nostre responsabilità come membri di una società che esclude, discrimina, emargina, isola e così facendo rafforza la solitudine, anzi, concorre a determinare la solitudine di chi si esprime in modo diverso dalla maggioranza, di chi è un “outsider”. A tal proposito, le parole di Nan Goldin, nota fotografa statunitense, assurgono a pensiero coscienzioso e luminoso al contempo: «Tutti possiamo fare qualcosa per gli altri se siamo abbastanza aperti da farli sentire meno alienati». 
Il lavoro di Olivia Laing è quindi, come ho scritto, un suo viaggio personalissimo nella solitudine, che, attraverso le storie di solitudine che racconta (in primis, la sua), ha il pregio di farci sentire meno soli, e di questo non la si potrà mai ringraziare abbastanza. 
La traduttrice è Francesca Mastruzzo.

Matteo Celeste

Città sola

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"Talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine" Collaboratore di Booklandia