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Casa di bambola

di Henrik Ibsen
Quando “Casa di bambola”, del poeta e drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, uscì e velocemente si diffuse da un lato si alzarono grandi lodi per il progressismo che quest’opera manifestava – documentati sono, ad esempio, gli elogi delle femministe che vedevano nell’opera ibseniana un appoggio alla loro battaglia –, dall’altro venne condannato aspramente da coloro i quali vedevano nel dramma di Nora Helmer, la protagonista femminile, una violazione della morale che vedeva nel matrimonio il perno della società e nella distinzione, non solo umana ma anche sociale e legale, tra donna e uomo, in particolare di subalternità della prima al secondo, un fatto irrefutabile e incontestabile. Divenne persino abitudine, come informa Gabriella Ferruggia, che cura l’”Introduzione” all’opera, «aggiungere sui cartoncini d’invito delle famiglie-bene scandinave l’avvertimento: «Si prega di non discutere di “Casa di bambola”».», per quanto foriero di crude discussioni era divenuto questo dramma.
La storia di Nora Helmer, donna priva di coscienza di sé, frivola, che agisce nei modi in cui il detestabile marito – Torvaldo Helmer – le ordina, e non vi è dubbio che egli la tratti come una bambina stupida, irragionevole, priva di maturità, che necessita di essere costantemente guidata ed educata, è la storia di come la società ottocentesca vedeva la donna, in gran parte, e di questa esposizione bisogna dare merito a Ibsen; bisogna cioè dare merito a Henrik Ibsen di aver messo in luce questa condizione impari tra uomo e donna, sebbene lui ritenesse di aver espletato un compito meno “impegnato” con la stesura di questo dramma, ovvero, per usare le sue stesse parole presenti nella lettera datata 26 maggio 1898 inviata alla “Lega norvegese per i diritti della donna”, solo quello di aver «[descritto] l’umanità».
Nora si imbelletta, si rende bella, piroetta, si mette costumi, abiti e tutto per compiacere il marito. La sua vita è diventata a tal punto priva di autodeterminazione, ch’ella agisce più come un automa, una “bambola” che come un essere umano: se il marito le chiede di indossare un abito, lo indossa; se le chiede di chiudere la bocca, la chiude; se le chiede di non pensare più in un certo modo, lo fa. E dove stanno l’autonomia, l’emancipazione, l’autodeterminazione di Nora? Non esistono. È talmente chiusa nella sua vita spensierata e “felice” – falsamente felice, ipocritamente felice – che non solo non si pone domande in merito, ma non si pone domande su niente che la circondi, limitandosi a fantasticare sul maggior potere ottenuto dal marito, ora direttore di banca, e su cosa potrà fare ora con quel potere ottenuto grazie a questa nuova condizione: del mondo, Nora, in definitiva, non conosce niente, e lo mostra chiaramente ogni volta che fa riferimento alle leggi. Tanto forte è l’influsso del marito sulla sua vita che tanto “vuota” sembra averla fatta diventare che, rispettando la volontà di Torvaldo espressa subito dopo il matrimonio di non menzionare i suoi amici e le sue amiche poiché ciò lo avrebbe reso geloso, arriva addirittura a non ricordare, di primo acchito, chi sia Cristina Linde, in realtà una sua cara amica d’infanzia che giunge a trovarla, come se l’opera di “addestramento” del marito avesse perfino “corroso” la memoria della moglie.
Eppure, se non è Nora che cerca la realtà, preferendo a essa la finzione di una vita spensierata e bella, sarà la realtà che eromperà nella sua vita sotto forma di un “ricatto” per un fatto (nascosto al marito) che la vede implicata. È in queste circostanze che si ha, nel terzo e ultimo atto, quella presa di coscienza che troppo a lungo è mancata a Nora – ben rappresentata dalla sua affermazione: «Mi tolgo il costume» –, laddove fino a poco tempo prima indossava il costume della perfetta bambola eterodiretta, e che ha portato numerosi lettori dell’opera di Ibsen a criticare la stessa in modo astioso.
A tal proposito, come non condividere l’interrogativo di Antonio Gramsci che, commentando una rappresentazione di “Casa di bambola” al Teatro Carignano nel marzo del 1917, a seguito della reazione del pubblico «sbalordita e sorda al terzo [atto]», si chiedeva: «Perché il pubblico è rimasto sordo, perché non ha sentito alcuna vibrazione simpatica dinanzi all’atto profondamente morale di Nora Helmer [che si compie nel finale]?» Be’, perché i tempi erano quelli che erano, la morale quella che era, immagino. Però, nonostante Ibsen non l’avrebbe sottoscritto, giacché, come scrive nella succitata lettera, «qualunque cosa io abbia scritto, l’ho scritto senza l’intento cosciente di fare della propaganda. Sono stato più il poeta e meno il filosofo della società di quel che la gente sembri incline a pensare [tanto che] devo rifiutare l’onore di avere lavorato coscientemente per il movimento dei diritti della donna», io credo fermamente che con questa opera, e con l’aver messo in luce una visione della donna largamente diffusa nell’Ottocento (e non solo), e profondamente inaccettabile – questo è da dire! –, abbia dato un contributo innegabile, che lo volesse o meno, alla presa di coscienza di uno stato di cose che era doveroso andasse incontro a un cambiamento radicale; una presa di coscienza che, in primis, ha coinvolto proprio le donne, come alla fine accade a Nora…
Non mi resta che suggerirvene la lettura nonostante i suoi 140 anni (nel dicembre 2019 tanti ne compirà), perché l’eguaglianza tra uomo e donna, be’, quello è un principio che non invecchia mai e che è sempre bene perseguire.
P. S.: I traduttori sono Maria Emma Raggio-Salvi e Lucio Chiavarelli.

Matteo Celeste

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Il Teatro – Henrik Ibsen – Casa di Bambola
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"Talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine" Collaboratore di Booklandia